Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Da Bramante a Canova

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Argan, Giulio 35 occorrenze

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, per carità, dissimulare l’artificio sotto un’apparente naturalezza dacché l’uomo è fin da principio destinato a essere diverso da tutto ciò ch’è

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dell’accademia di San Luca, ch'era il sodalizio professionale degli artisti. Sc il Bernini vuol essere l'artista ufficiale della Curia Romana e se il

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, come il «chef d’oeuvre inconnu» di Balzac, ch’è soltanto un groviglio di segni indecifrabili perché riproduce la realtà esistenziale nel suo

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«devozionale», nel senso che si dà a questo termine allorché si parla della pittura dello stesso periodo, e si vuole spiegare ch’essa non tanto mira alla

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palesemente lo sviluppo e l’accentuazione della funzione devozionale ch’era alla base del primo progetto. La novità è, in sostanza, l’inserzione di un

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spirito d’obbedienza; ma non si può dire ch’essi rimangano un’opera di ripiego, subordinata rispetto a un altro, predominante interesse. Negli affreschi

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della loggia o, ch’è lo stesso, tra una prospettiva proiettata sulla curva e una prospettiva proiettata sul piano, La soluzione definitiva è dunque la

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il suo carattere di attività dipende proprio dalle consuetudini di visione ch’essa richiama e riattiva alla coscienza. La colonna, per esempio

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elevandola al cielo delle idee eterne, è il tipo ideale del monumento, l’espressione suprema di quel sincretismo di classicità e cristianesimo ch’è alla

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tema ma il suo sviluppo armonico: esattamente come nella composizione musicale non è tanto il tema melodico che conta quanto lo sviluppo ch’esso

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, l’architettura come teoresi — elimina quello ch’era stato, per quarant’anni, l’obbiettivo supremo della sua ricerca, quello a cui aveva mirato fin dal

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Il meglio del pensiero urbanistico e architettonico di Benedetto Alfieri è rimasto inespresso, ma si può ricostruirlo sugli atlanti di disegni «ch

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quello ch’era stato, nei confronti dell’arte figurativa, Patteggiamento del patriziato nella Roma antica: sapere apprezzare la bellezza dell'arte è una

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, in Inghilterra, alla «grand manner», ch’è poi il far largo e solenne, ma anche sciolto e discorsivo, del ritratto «eroico».

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italiani: la loro pittura, specifica Walpole, è simile alla commedia, ch’è cosa da attori girovaghi, mentre la tragedia è comunque cosa da letterati

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riprendere, ma anche riformare, il concetto di «storia», ch’era alla base dell’arte di tradizione classica. Hogarth non si rassegna ad essere considerato

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storia ch’è travaglio e sviluppo e che dall’antichità giunge fino a noi e ci oltrepassa. Strano a dirsi, nei primi anni del Cinquecento si ripete tra

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che, come imitatore della natura, Raffaello è superiore a Rembrandt (disc. VII). La vera imitazione, dunque, è l’imitazione di ciò ch’è stato fatto dai

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definisce «the line of beauty» è, senza possibilità di dubbio, la linea del «wit»: all’opposto della linea retta, ch’è il collegamento più diretto tra

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esservi uno spazio fluido e indefinito. Ma se si badi alle distanze suggerite da quei brani di paesaggio, si osserverà facilmente ch’esse non hanno alcun

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poi un paradosso, se si pensa che l’agir spontaneo e naturale, secondo un retto e quasi istintivo discernimento di ciò ch’è buono o bello, è virtù

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qualificazione dell’individuo in rapporto a un rango sociale, doveva inserirsi in quella ch’era ormai la tecnica e l’economia, la funzione produttiva

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arte è capriccio: «l’ultima parola ch’io pronuncio in questa accademia, da questa cattedra, sia il nome di Michelangiolo». Pochi anni più tardi un

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celeste o infernale, eterno. Sono appunto questi i termini che rientrano d’un tratto nell’arte, che li aveva esclusi; e, quel ch’è più grave, vi rientrano

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costringe Dio a questo mostruoso commercio con l’umano? Il tema sociale, ch’era stato il tema fondamentale di tutta la pittura inglese, non poteva cancellarsi

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pseudoscientifici, potrebbe piuttosto ravvisarsi in Turner, ch’è un pittore, come oggi si direbbe, d’avanguardia, e come tale, anti-accademico e anti

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-natura, Blake è l’immagine dell’uomo in rivolta. Rinnega la storia, ch’è soltanto l’avverarsi di un destino o di una oscura volontà superiore; ignora la

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forma. È dunque comprensibile che Ruskin si riproponga il problema dell’arte italiana, ch’è arte per eccellenza «formale», e che risalga all’arte che

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Fuseli, ch’era stato scolaro del Reynolds nel ’64 e gli era rispettosamente amico, deve aver avuto una parte non piccola nel deciderlo al passo

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non seppe o non volle mai scegliere, non dirò tra Dio e il Diavolo, ma tra Petrarca e l’Aretino. Dall’angolo visuale del Manierismo, ch’è forse il più

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artefatta, dacché la funzione le ridà, su un altro piano, l’ambiguità, la doppiezza, l’inquietante pluralità di aspetti ch’è propria delle persone vive. È

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figure dell’arte è dunque, sempre, e non potrebbe non essere, magica e spettacolare, e non importa ch’essa avvenga su una scena teatrale, nel sogno o

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termina in incubo e, quel ch’è più grave, gli uomini sono tutti sonnambuli, agiscono nel sonno, e l’emozione è l’urto del risveglio, quando si prende

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Michelangiolo, che vedeva immagini prigioniere nel masso («non ha l'ottimo artista alcun concetto / ch’un marmo solo in sé non circoscriva»); ma qui l

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Questa era con tutta probabilità l’intenzione del committente, il Pisani, un aristocratico illuminato in una Venezia ch’era la punta avanzata dell

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